Agricoltura amica della qualità e del paesaggio? In Svizzera si può. Reportage degli inviati Arga Lombardia al dairy press tour Ifaj
dal nostro inviato Sabrina Pinardi
Qualche mucca al pascolo, una piccola fattoria, le montagne a fare da sfondo. Dice la giornalista Sermin Faki del Zentralschweiz am Sonntag (tra i relatori del Dairy Press Tour organizzato da Ifaj nella zona di Gruyere, patria dell’omonimo formaggio) che l’immagine-tipo dell’agricoltura svizzera è questa. E, probabilmente, non è un’immagine poi così lontana dal vero, visto che, in media, un allevatore svizzero possiede una ventina di vacche.
“Alla maggior parte di noi svizzeri piace così – dice la Faki – siamo contenti che il nostro cibo sia prodotto in questo modo”. Il problema è che quest’agricoltura in stile Heidi ha un costo, e una fetta crescente degli abitanti della Confederazione (soprattutto quelli che vivono in città) si chiede se valga la pena pagarlo.
“In Svizzera – ha spiegato la Faki – uova, formaggi e latticini costano circa il 30% in più che nella Ue, frutta e verdura il 50% in più e la carne addirittura più del doppio“. Certo, l’agricoltura stile Heidi non vuol solo dire salvaguardia di un paesaggio da cartolina (il che già non è poco), ma anche alta qualità e genuinità. Il latte svizzero, per dire, è il migliore al mondo per basso contenuto di cellule somatiche per millilitro (117.000/ml, contro le 190 mila del latte tedesco, le 232 mila di quello neozelandese e le 276 mila di quello Usa, secondo l’indagine 2011 dell’Alp Liebefeld). Basta questo, però, per giustificare le barriere elvetiche all’importazione di latte e latticini? Secondo Olivier Kolly , contitolare della Ferme des grand bois di Epagny, una delle aziende visitate nel corso del press tour, sì: “Noi produciamo un latte speciale in modo speciale, perciò è giusto non venir messi in concorrenza con chi non garantisce standard così alti”.
Non tutti, però, concordano. I prezzi alti non sono, infatti, solo frutto dell’alta qualità. L’agricoltura svizzera non solo gode di ampie protezioni doganali e commerciali, ma anche di corposi sussidi pagati dalla Confederazione (pari, nel 2010, al 54% dell’introito medio di un agricoltore secondo i dati dell’Oecd, anche se in calo rispetto al 70% circa degli anni fino al 2004). Cioè dalle tasse versate dai contribuenti. “Siamo arrivati a 3 miliardi e 700 milioni di franchi svizzeri l’anno (circa 3 miliardi di euro, ndr) spiega la Faki -. E sempre più svizzeri si chiedono se sia il caso di avere come terza o quarta voce di uscita del bilancio statale un settore che vale solo lo 0,7% del Pil. Io, ad esempio, che mi ritengo un’ecologista, sono disposta a pagare di più per un cibo buono e prodotto in modo sostenibile, ma penso che i soldi delle tasse sarebbero meglio spesi se servissero a finanziare gli asili”.
Può darsi che, come prevede Sermin Faki, con l’aumentare della popolazione urbana in Svizzera (e le pressioni del Wto) aumenterà anche la spinta a togliere qualche rete di protezione agli agricoltori elvetici. Se, come probabile, ne nascerà un vivace dibattito, faremmo bene a seguirlo con attenzione. La domanda su quanto siamo disposti a pagare per un’agricoltura amica della qualità e del paesaggio non vale forse anche per l’Italia e per l’Unione Europea?